L’homo habilis, cacciatore e raccoglitore, vissuto due milioni di anni fa al centro del continente Africano, nella savana, capace di fabbricare attrezzi rudimentali per la caccia, si cibava di frutti, di semi, di germogli, d’insetti, di uova, di piccoli animali da lui abbattuti, ma principalmente di carcasse di grossi animali già uccisi da altri più abili predatori. Mangiava strappando a morsi la carne cruda e per tale motivo aveva bisogno di un apparato masticatorio molto efficiente, con strutture cranio-facciali molto robuste, per cui le ossa della testa lasciavano poco spazio allo sviluppo del cervello, che aveva un volume di soli 700 cmc, in realtà quasi la metà della nostra attuale dimensione.
L’homo habilis si estinse dopo circa 500.000 anni, lasciando il posto all’homo erectus, di statura più alta e capacità cranica maggiore. A differenza degli altri primati, al pari dell’homo habilis aveva i pollici in opposizione rispetto alle altre quattro dita delle mani e non aveva coda.
Costui, abbandonando nel corso dei millenni gli alberi, sui quali erano vissuti i suoi progenitori, iniziò a camminare sui soli arti posteriori, potendo così sostenere con le mani gli attrezzi per la caccia, il cibo, la prole. Inoltre stando eretto poteva più agevolmente controllare che nella erba alta della savana non si celasse alcuna pericolosa belva che altrimenti avrebbe potuto aggredirlo di sorpresa. (Da notare che ancora oggi alcuni animali che vivono allo stato selvatico, come i Lemuri o le Lepri nel Nord della Gran Bretagna sono soliti stare a turno di vedetta nei campi, eretti sulle zampe posteriori, pronte a segnalare con sonori colpi di zampa sul terreno l’approssimarsi di un pericoloso rapace dal cielo, o di un’affamata volpe che silenziosamente si sta avvicinando tra i cespugli.)
Un giorno, nel continuo vagare alla ricerca del cibo, un gruppo di ominidi si imbatté nella carogna di un animale morto in un incendio, di certo provocato da un fulmine; se ne cibarono e si accorsero che la carne era più tenera da masticare. E così, mentre la un lato iniziò la lunga storia della cottura dei cibi, dall’altro, nel corso dei millenni, seguì la lenta evoluzione del cervello, riducendosi parimenti nel tempo le dimensioni dell’apparato masticatorio.
La scoperta del fuoco, le cui braci vennero tenute accuratamente sempre accese e protette dalle intemperie, rese possibile un altro grande progresso all’homo erectus. Li protesse dal freddo, consentendo loro di potersi spostare in zone non tropicali, facendoli giungere fino agli altri continenti e poi li difese dagli attacchi notturni delle belve, quando fu loro evidente che con la brace ardente e con le fiamme era possibile tenere a bada le bestie feroci.
Secondo un noto biologo contemporaneo, gli uomini anatomicamente moderni si diffusero su tutto il nostro pianeta raggiungendo la Nuova Guinea e l’Australia 60.000 anni fa, l’Europa intorno ai 40.000, le Americhe forse già 30.000 anni fa. Secondo alcune teorie peraltro ancora dibattute, in questa espansione gli uomini cacciatori-raccoglitori sterminarono tutte le grandi specie di mammiferi della preistoria, come il mammuth in Eurasia e nelle Americhe, i marsupiali giganti ed enormi uccelli senza ali simili agli struzzi in Nuova Guinea e in Australia (terre un tempo unite); il moa in Nuova Zelanda (uccello di mt 1 a 3 senz’ali) e ancora in Sud America elefanti, cavalli, cammelli, bradipi giganti e nelle Hawaii le oche giganti non volatrici, il dodo di Mauritius. Queste estinzioni in massa produssero un risultato irrevocabile: da interi continenti scomparvero tutte o quasi tutte le specie di mammiferi che si sarebbero potuti addomesticare e allevare in epoca successiva. (Alcune teorie affermano che la megafauna si estinse in seguito ad un repentino cambiamento climatico, ad es. una grande siccità) ( Da notare che in alcune tribù della Nuova Guinea, fino a pochi decenni fa, la assoluta carenza di proteine nobili contenute nella carne degli animali che scarseggiavano, spinse costoro fin dai tempi antichi, alla pratica del cannibalismo.)
A partire da oltre 10.000 anni fa l’agricoltura e l’allevamento degli animali si svilupparono indipendentemente in diverse parti del mondo: 10.500 anni fa in MedioOriente, 9.500 in Cina, 5.500 in CentroAmerica e nelle Ande; 4.500 nelle regioni Atlantiche degli attuali Stati Uniti d’America; 9.500 in Nuova Guinea; nelle terre a Sud del Sahara 7.000; in Africa Occidentale 5.000. Nella Mezzaluna Fertile l’agricoltura si diffuse rapidamente, subito dopo la sua nascita attorno all’8.000 a.C. L’onda espansiva raggiunse la Grecia, Cipro ed il Subcontinente Indiano prima del 6.500 a.C.; l’Egitto subito dopo il 6.000 a.C., l’Europa centrale prima del 5.400 a.C.; la Spagna meridionale prima del 5.200 a.C. e la GranBretagna intorno al 3.500 a.C..
Con le piante arrivarono anche altre novità: la ruota, la scrittura, la metallurgia, il consumo e la lavorazione del latte, la birra ed il vino.
Ma questo è tutto un altro discorso che affronteremo un’altra volta !
Per i popoli nomadi la produzione di cibo rappresentava una valida alternativa alla caccia e alla raccolta di semi e di piante selvatiche; era utile per migliorare la dieta, e in breve tempo si rivelò più vantaggiosa. Con il tempo i novelli agricoltori compresero che le piante coltivate procuravano anche tessuti, coperte, funi e reti, mentre gli animali addomesticati fornivano carne, latte, uova, fertilizzante per i campi. E poi erano una fonte di energia fondamentale, alternativa all’uomo, perché tiravano gli aratri, sospingevano le macine dei mulini per i cereali e azionavano il bindolo per tirare su l’acqua dei pozzi. E cosa non trascurabile, si accorsero che alcuni animali potevano fornire caldi tessuti, per proteggersi dal freddo, come la lana.
Soltanto le tribù di pellerossa della California, che vivevano in una delle zone più fertili del mondo, furono i più restii a sviluppare l’agricoltura, forse perché la troppa abbondanza di pesce e la grande varietà di piante selvatiche, consentiva loro un valido sostentamento, limitandosi così le loro donne oltre ad una facile cattura dei pesci, a raccogliere frutti, semi e germogli che crescevano spontaneamente in tutto l’anno grazie alla mitezza del clima.
Fatta dunque questa lunga premessa, avviciniamoci di più ai nostri giorni e vediamo cosa accadde in seguito.
Inizialmente i cibi furono direttamente esposti alla brace e poi in tempi successivi furono adottate le tecniche di cottura che richiesero l’impiego di un certo numero di utensili, stimolando la gente ad aguzzare l’ingegno.
La tecnica dell’argilla cotta e della fusione dei metalli era ancora lontana e soltanto in piena età del bronzo, nel terzo millennio a.C. furono confezionati i primi tegami metallici.
In breve, dalla scoperta e dal relativo impiego del fuoco, e cioè fino a poco più di tre secoli fa, sia per cuocere i cibi che per produrre calore, in ogni grotta o capanna, in ogni casolare grande o piccolo che fosse, da sempre esisteva un luogo ove il fuoco veniva custodito ed utilizzato, ma ciò non consentiva però di regolare la diversa quantità di calore alla quale era necessario esporre i cibi da cuocere. Ciò infatti poteva avvenire soltanto avvicinando o allontanando il relativo recipiente dalla brace o dalle fiamme, ma sempre in maniera approssimata.
Finalmente verso la fine del 1700, nelle case della ricca borghesia, al posto del vecchio focolare fu realizzato un nuovo sistema di cottura ideato in Francia all’inizio del secolo, il quale realizzato in muratura, occupava un’intera parete dell’ambiente adibito a cucina ed era munito di diverse piastre rotonde concentriche, più o meno asportabili, con le quali era così possibile graduare il calore al quale esporre la pietanza da cuocere. Nacquero contemporaneamente le batterie da cucina, che erano composte da pezzi di diverse dimensioni, per adattarsi ai vari fori ed alle diverse quantità di cibo da cuocere.
Comunque è necessario premettere che in Europa come in altri Paesi, nella maggioranza delle famiglie, ad esclusione di quanto avveniva nelle case della nobiltà e dei ricchi proprietari terrieri, per giorni e anche per settimane il cibo era monotematico; serviva principalmente a riempire lo stomaco e a riscaldare chi andava di prima mattina a lavorare nei gelidi campi, e per rifocillare chi vi faceva ritorno la sera, essendosi potuti cibare, al tocco della campana di mezzogiorno, soltanto di un duro pezzo di pane schietto, tutt’al più ammorbidito nell’acqua del ruscello !
Secondo uno scritto del Cavalcanti, nelle nostre regioni il “Potager”così chiamato, si era diffuso soltanto verso la metà del 1800. Poteva essere alimentato sia a carbone vegetale che a legna, ma già soltanto, all’inizio del 1900 i problemi di spazio cominciarono a farsi sentire nelle grandi città ed anche questa volta la Francia con le sue originali innovazioni invase il nostro mercato. Nate dall’esperienza fatta dal grande Napoleone nelle sue frequenti campagne di guerra e realizzate in ghisa con un ridotto ingombro, erano state costruite ed adattate agli usi domestici delle apparecchiature chiamate “cucine economiche”. Al pari del potager erano alimentate a carbone o a legna, intiepidivano l’ambiente in cui erano installate e con una piccola fornace centrale permettevano la cottura su diversi fornelli, alimentavano un forno e riscaldavano l’acqua.
Ritengo che ancora oggi sia possibile scovare simili attrezzature in qualche negozio di antiquariato.
Ma diamo ora un rapido sguardo alla gastronomia di allora.
Fino ai primi decenni del 1900, tra i vari territori della nostra regione esistevano delle profonde diversità nelle tradizioni della gastronomia, in specie tra i paesi dell’entroterra e quelli bagnati dal mare. Ancorpiù il divario si accentuava nelle località di montagna, dove meno frequenti erano le occasioni di visita da parte di pellegrini che si recavano in luoghi impervi per sciogliere un voto fatto, o ad opera di venditori ambulanti che vi si avventuravano rischiando di essere rapinati dai briganti che infestavano i passi di montagna più solitari.
In ogni caso l’analfabetismo era molto diffuso quindi la descrizione di una pietanza che aveva colpito la fantasia del potenziale gastronomo poteva avvenire - quasi sempre - per via orale.
I mezzi di informazione erano pressoché inesistenti, i giornali ed i rotocalco alla portata di tutti avrebbero fatto la loro comparsa con diffusione nazionale soltanto dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’uso del telefono era un gran lusso, la Radio era agli albori e le automobili che avrebbero poi consentito alle masse di spostarsi agevolmente da un lato all’altro della regione, erano retaggio di pochi privilegiati. E poi la esigua rete autostradale rendeva difficilmente accessibili quelle località caratteristiche, divenute famose soltanto in seguito, per le loro specialità gastronomiche.
Nelle famiglie che vivevano in alcune zone montuose dell’interno si confezionavano delle stupende paste fresche: orecchiette, fusilli, cannelloni, gnocchi, ravioli, lasagne, che unite ai legumi del posto o condite con sughi di carni di capretto, di agnello, di cacciagione, erano degustate nelle ricorrenze festive ed in occasione di matrimoni. I maccheroni, ormai prodotti industrialmente, erano consumati nei pasti di tutti i giorni, mentre le pietanze a base di pesce erano rare, fatta eccezione per quelle a base di baccalà sotto sale, che poteva essere trasportato in luoghi lontani.
Invece nelle zone bagnate dal mare o immediatamente adiacenti abbondavano i piatti a base di pesce, mentre risultavano molto rare le pietanze a base di carne bovina. In comune tra le diverse zone vi erano formaggi ovini e caprini, il raro pollame ed i conigli.
Però è da notare che comunque i tipi di cottura, gli aromi ed i condimenti impiegati rendevano sostanzialmente differente i risultati finali delle pietanze realizzate in un luogo o in un altro.
In pianura abbondavano gli ortaggi per buona parte dell’anno, ma per le note difficoltà di trasporto e di conservazione, in inverno erano difficilmente reperibili nelle zone dell’interno montuoso, caratterizzate da un clima più freddo che consentiva alcune coltivazioni soltanto nei mesi più caldi..
Ho potuto avere conferma di queste mie affermazioni, analizzando accuratamente un interessante manuale, scovato di recente nella mia biblioteca, dal titolo “Guida all’Italia piacevole”, edito da Garzanti nel marzo del 1969, cioè 35 anni or sono, scritto a seguito di un ciclopico lavoro di indagine esteso a tutto il territorio italiano, ad opera del famoso giornalista gastronomo Luigi Veronelli, di recente scomparso. Infatti lo scrittore fermava la sua attenzione paesino per paesino, sulle pietanze realizzate nelle osterie, nelle trattorie, nei ristoranti, non tralasciando di esaminare anche le più modeste località, illustrando in maniera sintetica le ricette ed i piatti più caratteristici.
E subito risultavano evidenti le notevoli differenze che vi erano tra le pietanze offerte da una zona all’altra, da un paese all’altro, sia pure fossero situati a pochi chilometri di distanza.
Pochi anni dopo il termine del secondo conflitto mondiale, con il ritorno dell’abbondante disponibilità di cibo e con l’avvento dei moderni mezzi di comunicazione, di trasporto, di conservazione, nelle grandi città e nei centri più popolosi, queste differenze nel realizzare pietanze tipiche seguendo le antiche tradizioni nelle diverse regioni, cominciarono ad affievolirsi. Molti gusti si appiattirono, iniziarono a scomparire le buone cucine e le ricette di un tempo, forse ad opera di maligne influenze e di discutibili correnti di pensiero, provenienti d’oltr’Alpe e d’oltre Atlantico.
Di ciò si accorse il famoso giornalista-scrittore Orio Vergani, il quale al grido “la cucina italiana sta morendo”, insieme ad un ristretto numero di amici decise nel 1953 di fondare l’Accademia Italiana della Cucina per salvare dall’oblio in cui stavano precipitando le nostre gloriose tradizioni gastronomiche.
Oggi, a poco più di cinquant’anni da allora, grazie a questa felice intuizione, la nostra associazione è presente in tutta l’Italia e nelle principali città del globo, con un elevato numero di delegazioni e di accademici che con la loro fattiva opera e con notevoli sacrifici stanno riportando in vita tutte le antiche tradizioni cucinarie che avevano rischiato di scomparire.
In riconoscimento di questo particolare servigio reso al nostro Paese, la nostra Accademia, in occasione del suo cinquantenario, con decreto del 18 agosto 2003 , è divenuta “Istituzione Culturale della Repubblica Italiana” .
E noi siamo ben fieri di farne parte !